da popoffquotidiano
Trump, ci siamo sbagliati
Con la svolta bellicista nella guerra
civile in Siria si riorienta la politica Usa
di Maurizio Zuccari
di Maurizio Zuccari
Ebbene sì, ci siamo sbagliati. Pensavamo che a un uomo
d’affari – meglio, un affarista – non piacesse la guerra. Anche se gli affari grossi
si fanno grazie ai conflitti, quelli certi si fanno con la pace, e l’uomo ci
pareva, con tutti suoi difetti, pragmatico quanto basta per non pigiare sul
bottone rosso dell’opzione militare. Certo un po’ di smargiassate, di
spacconate com’è nello stile del personaggio Trump e nelle aspettative di chi
l’ha eletto ci stavano. Però un conto è mostrare i muscoli e magari alzare
muri, un altro è sparare missili. Confidavamo che un amante del pissing &
love come il rosso Berlusconi d’America non potesse davvero amare la guerra. A
riprova di ciò fidavamo sul fatto che i circoli militari avessero finanziato la
sua campagna con una cifra risibile, poco più d’una decina di migliaia di
dollari, una miseria a fronte delle centinaia di migliaia versate nelle fauci di
jena Hillary – lei, sì, guerrafondaia e non a caso plaudente al neobombardiere
– e sotto le alucce da colombella pseudosocialista di Sanders. Insomma,
credevamo vere le ragioni per le quali il suo elettorato non bellicista l’ha
votato: ridare lavoro, sicurezza e blasone agli Stati Uniti d’America. E l’aver
fatto fuori in un colpo le cricche repubblicane e democratiche da sempre
belliciste, la ventilata amicizia con Putin, il ritorno al protezionismo e
all’isolazionismo, ci parevano cose, se non belle e buone, quantomeno utili a
tenere distanti dalle nostre vite le sirene della guerra totale. E invece no,
ci siamo sbagliati. E se la terza guerra mondiale non comincia oggi è perché
Dio, o chi per lui, gioca come il gatto col topo con l’umanità che l’ha creato.
Con l’attacco alla base aerea di Shayrat, nella Siria
centrale, Trump ha fatto quel che neppure il nobel per la pace Obama – il
maggior bombardiere della storia Usa recente – aveva osato: attaccare la Siria
rischiando lo scontro frontale coi russi. È vero che l’ha fatto dopo aver
avvisato Putin del raid, e si suppone che dopo i 59 missili Tomahawk lanciati
sull’aeroporto da cui erano partiti i cacciabombardieri di Damasco responsabili
dei sedicenti raid chimici su Idlib, e il pugno di morti nella base dove sono
di stanza anche velivoli e personale russi, sia finita qui. Il messaggio è
chiaro, i destinatari pure. Trump ha dato il via libera ai suoi incrociatori
lanciamissili prima di andare a cena col presidente cinese Xi Jinping, suo
ospite in Florida per discettare di guerre commerciali e faccende coreane,
messo davanti al fatto compiuto. Al di là dei sorrisi di facciata, Xi ha capito
che quei missili erano per lui, oltre che per Putin, e ne trarrà le debite
conseguenze: prendere a schiaffi un ospite di riguardo sotto i riflettori del
mondo è cosa che non si dimentica facilmente, a Oriente più che a Occidente. E
l’hanno certamente capito Teheran e Pyongyang, prossimi obiettivi dichiarati
degli Usa nella ritrovata veste di cane da guardia del mondo libero. Putin,
messo sotto scacco dalla mossa di Trump, come dalla bomba alla metro di San
Pietroburgo mentre era in visita alla città, potrà fare ben poco. Neanche la
voce troppo grossa, per aiutare Assad. Che la Russia abbia il controllo dei
cieli e il regime di Damasco stesse vincendo la guerra civile conta poco,
adesso. Grazie agli Usa si applicherà anche in Siria quel piano Kivunim che per
Tel Aviv è la panacea d’ogni problema mediorientale. Un paese non più uno ma
trino, come già l’Irak dove ognuno ha la sua fetta, con buona pace di Assad e
della lotta al terrore globale di marca occidentale.
Il voltafaccia di Trump giunge all’indomani della cacciata di
Steve Bannon dal Consiglio di sicurezza nazionale, come prima di lui di Mike
Flynn, e rivela il peso che il cognato Jared Kushner e il generale Herbert Mc
Master, e con loro la lobby ebraica e militarista, hanno acquisito alla Casa
Bianca. Con loro, il riequilibrio di Trump alla tradizionale politica di
potenza Usa, indipendentemente dal colore di chi occupa le stanze del potere a
Washington, è un fatto. Serviva il casus belli, ed è stato trovato. Con gli
stessi schiamazzi e le insulsaggini del 2013 – quando il bombardamento di
Damasco e la cacciata di Assad parevano cosa fatta – e, dieci anni prima, del
2003, quando si attaccò Saddam per la seconda volta con la scusa dei gas.
Anche stavolta il mitico
gas nervino, usato sul crocevia della guerra in corso che è Idlib – dove sono
sotto botta i miliziani già qaedisti e il fior fiore delle milizie islamiche
che l’Occidente combatte a parole come terroristi ma arma e finanzia – finanche
sull’ospedale dove si curavano i feriti. Col corollario di civili gasati e
bambini morti che hanno provocato lo sdegno internazionale, la pronta condanna
dell’Onu bocciata da quel mostro di malignità di Putin e la subitanea risposta
del suo ex amico, come si conviene a un decisionista qual è il presidente Usa,
evidentemente scioccato da tanta abietta crudeltà da parte del regime siriano,
al pari del mondo. Le stesse bugie di sempre, urlate ai quattro venti da media
compiacenti o, peggio, ignavi. Pochi si chiedono come Assad avrebbe potuto
bombardare col gas, visto che i suoi arsenali sono sotto controllo Onu dal
2013, appunto, né si capisce perché avrebbe dovuto farlo adesso, suicidandosi
politicamente, con la vittoria a un passo e la sua permanenza a Damasco
scontata. Quanto alla solita troupe televisiva casualmente presente
all’ospedale di Idlib, ai dati e alle scene strazianti fornite da Ong
stipendiate dai servizi occidentali in funzione anti regime, sono particolari
troppo evidenti perché qualche giornalista o funzionario Onu, Mogherini in
testa, se ne curi. Lasciamoli ai complottisti e pigliamo per oro colato il
resto.
Il gas a Idlib non è sceso
dal cielo, ma messo da chi aveva tutto l’interesse a farci piovere le bombe del
regime sopra, e a provocare una reazione e un mutamento del conflitto in corso
prima di qualunque inchiesta che mostrasse, come già sei anni fa, la manina dei
servizi segreti di Ankara nel fornirlo ai sedicenti ribelli democratici
siriani. In tutto questo frastuono, in questo vociare insulso dove Assad torna
a recitare il ruolo del cattivo per antonomasia e Trump quella dello sceriffo
del mondo libero, anche a campioni di democrazia come Erdogan e Netanyahu è
consentito dare lezioni di moralità e puntare l’indice su mostri sanguinari
quali Putin e Assad. Non certo galantuomini, ma in prima fila a combattere al
fronte d’una guerra per la supremazia mondiale nata e alimentata dal cuore nero
dell’Occidente, con lo spauracchio ieri del comunismo, oggi del radicalismo
islamico. Lo stesso canovaccio di sempre, lo stesso ballare sul filo d’una
guerra infinita che si credeva quantomeno interrotto. Quando Damasco sarà
ridotta in macerie la fine del mondo sarà vicina, vaticinava il profeta Isaia
un bel po’ di secoli prima di Cristo. Nell’Armageddon siriaco, nel cozzo finale
tra due visioni del mondo, i missili di Trump non faranno versare al sesto
angelo la sua coppa ma sono un segnale importante, la fine è più vicina.
L’apocalisse forse comincia oggi, e noi ci siamo sbagliati.
mauriziozuccari.net
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