mercoledì 24 gennaio 2018

Dalla pagina di Antonio Moscato

  Una politica estera bipartisan (e irresponsabile) 

 Non a caso c’è stata da decenni una totale continuità nella politica estera italiana, indipendentemente da chi stava al governo. L’Italia ad esempio non solo è stata sempre a rimorchio degli Stati Uniti e della NATO, ma ha solidi rapporti con “amici” criminali come Erdogan, che fa saltare nuovamente i fragilissimi equilibri siriani con un’offensiva militare contro i curdi senza curarsi neppure di trovare una motivazione plausibile. Tanto gli alleati nella NATO tacciono o al massimo mugugnano un po’ (come fanno gli Stati Uniti) ma non limitano le forniture di armamenti al già armatissimo esercito turco. Certo non fiata il governo italiano che vende armi a chiunque senza preoccuparsi dell’uso che se ne fa, come è stato documentato per le forniture all’Arabia Saudita mentre massacra la popolazione dello Yemen.

Ma presto il nostro paese si può trovare tra due fuochi: un altro dittatore criminale, a cui è stato perdonato tacitamente l’assassinio di Giulio Regeni (e tanto più l’arresto preventivo di ogni possibile candidato alternativo alla sua rielezione), l’egiziano al Sissi, sta affrontando uno scontro con l’Etiopia che sta costruendo una serie di grandi dighe sul Nilo, che effettivamente possono alterare il clima in tutto il bacino del grande fiume, già pericolosamente modificato dalla diga di Assuan. Contemporaneamente anche Erdogan sta intervenendo nell’area, con una base militare su un isoletta concessa dal Sudan e un’altra in Somalia (dove siamo già presenti in varie forme, oltre che con la nuova base militare a Gibuti). Qualcuno si domanderà che cosa ci interessa di queste vicende lontane, sicuramente: ma il problema ignorato dalla quasi totalità degli italiani è che le dighe contestate sono state fortemente volute (e finanziate) dal governo italiano non meno che da quello etiopico. Ecco come riassume la vicenda un dettagliato articolo di Luca Puddu su Limes 2017/11, dedicato interamente al tema: Africa italiana:
I casi della Salini e del progetto Gilgel Gibe II sono paradigmatici del ruolo dei capitali privati nella negoziazione dei programmi di cooperazione bilaterale, in collaborazione e finanche in competizione con gli organi dello Stato ufficialmente deputati alla conduzione della politica estera. Salini ottenne l’appalto per la costruzione della relativa centrale idroelettrica nell’aprile del 2004 e fece da tramite del governo etiopico presso quello italiano fino alla stipula di un ambizioso programma di cooperazione bilaterale. Grazie a quest’ultimo l’Etiopia otteneva la cancellazione del debito con l’Italia e reperiva circa 220 dei 400 milioni di dollari necessari alla realizzazione del progetto.
Reperiva dove? Ovviamente in qualche piega nascosta del bilancio dello Stato italiano, a beneficio esclusivo di un’impresa privata. Come al solito senza una vera discussione parlamentare:
La scelta di concentrare un volume di aiuti così rilevante su un unico progetto è stata presa contro il parere dell’ambasciata italiana di Adis Abeba e della direzione generale per la Cooperazione internazionale, i quali esprimevano perplessità sull’assenza di adeguati studi di impatto ambientale.
Ma come mai queste obiezioni tecniche prima ancora che politiche non sono state ascoltate? Semplice: perché Salini aveva l’appoggio dei due schieramenti di centro sinistra e centrodestra che si sono alternati al governo, pur fingendo di essere avversari:
La centralità di Salini nella relazione bilaterale è stata confermata dalle stesse autorità politiche italiane in visita nel paese negli anni successivi. Nel 2010 il ministro degli esteri Frattini [di centrodestra] inaugurava il complesso idroelettrico Gilgel Gibe II, mentre il primo ministro Renzi teneva un discorso nel sito di costruzione del progetto Gilgel Gibe III durante il tour etiopico del 2015. 
Analoghe vicende riguardano appalti ottenuti in altri paesi dalla stessa Salini Impregilo, dall’ENI, da FIN Meccanica (oggi ribattezzata Leonardo). Sempre a spese degli ignari contribuenti italiani, e col rischio di essere trascinati in conflitti pericolosi. Si pensi ai periodici annunci trionfalistici sugli accordi di pace in Libia, smentiti da scontri perfino nell’aeroporto di Tripoli e terribili attentati a Bengasi. Il vicepresidente esecutivo dell’ENI, Lapo Pistelli, può affermare trionfalmente sullo stesso fascicolo di Limes che “L’ENI è in Africa per restarci”, vantandosi del fatto che opera già in quindici paesi. Ma deve anche ammettere poi che “sarebbe sciocco negare che gli ultimi anni hanno segnato semmai una tendenza politica globale al maggior disordine”, che attribuisce però esclusivamente “all’arrivo sul palcoscenico africano della potenza cinese e di nuovi ambiziosi protagonisti dello scacchiere mediorientale”. A chi allude? L’Arabia Saudita? Il Qatar? La Turchia? Tutti amici dei nostri governanti. Tutto questo alle spalle di quegli elettori italiani, che ignorano i pericoli a cui si va incontro tentando di inserirsi con qualche centinaio di soldati in schieramenti complessi e a geometria variabile, non “per proteggere gli interessi italiani” come ripete la retorica di tutti i grandi schieramenti, ma quelli di quell’1% di capitalisti, imprenditori senza rischi, perché finanziati con i milioni destinati alla cooperazione. Solo “Potere al popolo” ha una posizione netta e senza ambiguità. Nel capitolo del programma su Pace e disarmo infatti proponiamo di lottare per:
la rottura del vincolo di subalternità che ci lega alla NATO e la rescissione di tutti i trattati militari;
la ratifica da parte dell’Italia del “Trattato ONU di interdizione delle armi nucleari” del 7 luglio 2017, in coerenza con l’art. 11 della Costituzione
il ritiro delle missioni militari all’estero;
la cancellazione del programma F35 e degli altri programmi militari e la riconversione civile dell’industria bellica;
la cancellazione del MUOS in Sicilia, lo smantellamento delle basi militari in tutto il paese, la rimozione delle bombe nucleari presenti sul territorio e la restituzione a fini civili dell’uso del territorio, problema particolarmente grave in realtà come la Sardegna.
E in altre parti del programma si ribadisce anche “il diritto dei popoli ad essere chiamati ad esprimersi su tutte le decisioni prese sulle loro teste a qualunque livello– comunale, regionale, statale, europeo – pregresse o future, con il ricorso al referendum”. E si propone anche di lottare per “la fine dei trasferimenti a pioggia alle imprese e della continua riduzione delle tasse sui profitti”;
Non sono frasi retoriche, sono obiettivi di lotta, che valgono ben aldilà della scadenza del 4 marzo!
(a.m.)

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