di Franco Turigliatto
Sulle concitate vicende che hanno portato
al varo della “Nota di aggiornamento del Documento di economia e
finanza 2018 (DEF)”, con i dirigenti del M5S sul balcone di Palazzo
Chigi ad esultare insieme ai loro sostenitori in piazza, è opportuno
fare due ordini di considerazioni prima di entrare nel merito delle
decisioni assunte.
Due considerazioni introduttive
La prima è politica: i due partiti che
compongono il governo, avendo creato una fortissima aspettativa nel loro
elettorato popolare sulle misure da intraprendere, erano quasi con
l’acqua alla gola; temevano che qualsiasi scelta che fosse anche solo
sembrata un palese passo indietro avrebbe invertito l’orientamento
favorevole dell’opinione pubblica nei loro confronti. Questo era tanto
più vero per i grillini in grande affanno di fronte al ruolo arrembante
del loro alleato, alle palesi dimostrazioni d’incapacità politica ed
amministrativa dei suoi ministri e alla mancanza di risultati che le
parole e il sorriso perenne di Di Maio non potevano più compensare; ma
valeva in parte anche per la Lega, pure molto rafforzata dalla campagna
barbarica contro i migranti, ma bisognosa di dare al suo popolo piccolo e
medio borghese di imprenditori, evasori e sfruttatori, di cittadini
plaudenti le misure securitarie a difesa della “loro roba”, la pulizia
delle strade dai derelitti schiacciati dalla polarizzazione sociale e il
carcere per chiunque oserà occupare una piazza o uno stabile vuoto,
anche qualcosa di più concreto in danè o in schèi.
La seconda è legislativa e materiale: la
strada della realizzazione delle misure annunciate, cioè la sua
articolazione nella legge finanziaria è lunga e complessa; per
verificare la reale concretezza degli assunti bisognerà conoscere le
precise formulazioni del disegno di legge che dovrà essere varato entro
il 15 ottobre.
Per ora vale l’effetto, non certo
secondario e politicamente significativo, dell’annuncio che il Consiglio
dei Ministri si è pronunciato per un consistente aumento del deficit
annuale di bilancio (2,4%) e per ben tre anni, superiore di 0,8 punti
percentuali rispetto (e in aperto contrasto) alle indicazioni delle
istituzioni europee.
La quadratura del cerchio?
Quale problema avevano davanti gli uomini
del M5S e della Lega? Come risolvere la quadratura del cerchio volendo
nello stesso tempo aumentare le spese con il reddito di cittadinanza e
la revisione parziale della Fornero e ridurre in diverse forme le
imposte con la conseguente contrazione delle entrate per lo Stato? I due
elementi sono evidentemente contradditori. La soluzione avrebbe dovuto
essere quella di reperire i soldi là dove ci sono, cioè ridare allo
stato le decine di miliardi che sono stati trasferiti alle imprese e ai
padroni nel corso degli anni attraverso diverse riduzioni di imposizione
fiscale o di finanziamento più o meno diretto. Ma questo sarebbe stato
in totale contrasto con la natura e i programmi dei due partiti nonché
con gli interessi dei settori borghesi che rappresentano.
Il deficit pubblico accumulato è infatti
il risultato delle scelte liberiste che da oltre 25 anni hanno portato
in Italia (ma anche negli altri paesi) a una costante riduzione delle
imposte sia individuali per i ricchi (IRPEF), sia per le imprese (IRES,
IRAP), che è stata una costante dei governi del centro destra
(Berlusconi e Lega), di quelli del centro sinistra (D’Alema, Prodi,
Renzi e Gentiloni), e di quelli “tecnici di coalizione” (Monti).
I due partner di governo si sono dati il
compito di distribuire diversamente dai governi del PD, più legato agli
interessi della grande borghesia inserita nel quadro capitalista
europeo, la ricchezza prodotta, cioè il plusvalore ricavato dallo
sfruttamento delle classi lavoratrici, tra i vari settori del padronato
piccolo e grande, molti dei quali pressati dalla forte concorrenza
capitalista internazionale.
La corsa al taglio delle tasse sulle imprese
Pochi giorni fa il Sole 24 ore pubblicava un articolo assai significativo “Corsa mondiale al taglio delle tasse sulle imprese”
che dettagliava paese per paese gli enormi sgravi fiscali di cui hanno
beneficiato le società e di cui beneficeranno ancora di più in futuro
dopo che Trump ha rilanciato la corsa al ribasso. In genere mentre in
passato il prelievo fiscale sulle imprese aveva aliquote intorno al
33-34%; oggi si viaggia sul 24-25% (ad eccezione della Francia che è
ancora al 33,33%, ma lo sarà per poco) con l’Italia al 24%; alcuni paesi
sono già scesi sotto il 20% e l’Irlanda guida la corsa addirittura con
il 12,5%; gli Usa sono al 21% e Germania è al 15,825%, ma l’imposizione
in questo paese sale poi di molto per effetto delle imposte locali.
Ora al centro del DEF di Salvini e Di
Maio c’è esattamente la proposta di ridurre ancora l’imposizione fiscale
sia sulle persone fisiche (nel 2021 si dovrebbe scendere a due sole
aliquote, con quella superiore sugli alti redditi appena al 33%, oggi è
al 43%), e quella sulle imprese che dovrebbe progressivamente scendere
al 15%.
Per ora la prima fase della flat tax
avverrebbe tramite l’innalzamento delle soglie minime per il regime
semplificato di imposizione su piccole imprese, professionisti e
artigiani e il taglio dell’imposta sugli utili d’impresa (Ires) per le
aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi.
Ma c’è anche di più nelle scelte
pentaleghiste: c’è anche il tanto desiderato condono; vedremo presto se
sarà più o meno tombale, su quali livelli sarà definito, se sarà fiscale
od anche contributivo, quanto sarà ingiusta la cosiddetta “pace
fiscale”, cioè il premio a quelli che hanno rubato allo stato e alla
collettività penalizzando le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, che
non possono sfuggire al fisco sottostando al sostituto di imposta.
Salvini e Di Maio sul terreno fiscale
sono quindi del tutto interni alle scelte dei governi precedenti ed in
continuità con le politiche liberiste dominanti.
Il reddito di cittadinanza e l’intervento sulla Fornero
Qualcuno obietterà: “già, ma allora il
reddito di cittadinanza e l’intervento sulla Fornero dove lo mettiamo?”
Premesso che è necessario dare un reddito per vivere a tutti, noi
abbiamo sempre sostenuto che un intervento sul salario sociale va fatto,
ma deve essere correlato a un contemporaneo vasto progetto di spesa e
di investimenti pubblici funzionali a soddisfare i bisogni della
società creando posti di lavoro stabili e remunerati adeguatamente al
fine di spezzare le spirali della povertà, insieme a una riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro e a una rinnovata lotta per aumenti
salariali. Non è questo l’intenzione del governo che parla
genericamente d’investimenti pubblici di cui non è per nulla chiara
l’entità e la direzione. Il reddito di cittadinanza, o per usare il
termine del PD di “inclusione”, non è in contrasto con le impostazioni
liberiste che presuppongono la piena libertà di sfruttamento del lavoro e
la garanzia dei profitti congiunte a un intervento pubblico più o meno
caritatevole per impedire contradizioni sociali troppo forti per gli
equilibri del sistema.
Per quanto riguarda il “superamento della
Fornero” (ma essa andrebbe abrogata del tutto), bisognerà vedere in
concreto come si tradurrà. E’ opportuno ricordare che non solo i
lavoratori hanno necessità di andare in pensione, ma che anche le
aziende sono interessate a liberarsi di una manodopera logora e che
ancora dispone di contratti meno svantaggiati, per poter assumere una
forza lavoro giovane, quindi più produttiva e sfruttabile, assunta con
le nuove e vantaggiose (per i padroni) forme contrattuali. La Lega deve
andare incontro alle esigenze dei lavoratori che la sostengono, ma ancor
più sostenere gli interessi dei padroni a cui è collegata. E questo
vale anche per il M5S.
Bisognerà vedere quale potrà essere la
penalizzazione sull’entità dell’assegno pensionistico, soprattutto se
esso sarà calcolato con il metodo contributivo; da verificare poi se
questo passaggio diventerà lo strumento per la generalizzazione del
sistema contributivo, obbiettivo comune di tutta la vorace combriccola
politica e sociale capitalista a partire dall’attuale presidente
dell’INPS e di colui che la Lega vuole mettere al suo posto.
Infine sul deficit di bilancio
Ho lasciato per ultimo, ma non per
ultimo, la riflessione sul tema che oggi tutti i media sparano in prima
pagina: il reperimento delle risorse portando il deficit di bilancio al
2,4%.
In fondo è quello che anche noi di
sinistra abbiamo sempre chiesto ci dicono alcuni; rompere con le
imposizioni del Fiscal compact europeo, rompere con l’assurdità del
pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, non aver paura di
finanziare in deficit la spesa pubblica e il rilancio dell’economia e
quindi del lavoro.
E’ vero, un governo di sinistra vera,
sostenuto dalle classi lavoratrici dovrebbe farlo e potrebbe farlo anche
di più. Ma lo dovrebbe fare non riducendo le tasse ai ricchi e alle
imprese, ma aumentandole per reperire il massimo di risorse per una
vasto piano sociale ed occupazionale. E lo dovrebbe fare anche dicendo
chiaramente che non intende “onorare” il debito, che anzi lo rigetta in
tutto o in parte, costituendo esso una ingiusta compressione dei salari,
delle pensioni, dell’occupazione e dello stato sociale a sostegno delle
rendite finanziarie. Per realizzare tutto questo dovrebbe
effettivamente rompere i vincoli capitalistici del mercato e mobilitare i
lavoratori; in altri termini mettere in moto un processo sociale in
grado di creare i rapporti di forza necessari per reggere lo scontro con
le forze padronali sia a livello nazionale che a livello
internazionale. E’ il nodo che si era posto in Grecia e che il governo
Tsipras, pur avendo la spinta popolare del voto su referendum, ha
risolto negativamente piegandosi al memorandun liberista.
Molti giornali e il PD polemizzano sul
fatto che la scelta del governo farà schizzare verso l’alto il
cosiddetto spread, che i mercati la sanzioneranno e che l’Europa aprirà
una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Più sobria la
reazione del Sole 24 ore che si limita a precisare che si può aumentare
il deficit ma solo se serve a crescere e a sviluppare investimenti per
il rilancio. Inutile fare previsioni su quel che avverrà perché i
meccanismi non sono così automatici e perché in questa storia c’è un
intreccio sinergico tra dinamiche economiche e considerazioni politiche
dei governi e degli stati.
Da una parte ci sono le regole liberiste
del fiscal compact, che hanno una loro logica, sono quelle che servono a
tenere in equilibrio (precario) un’Unione Europea costruita in forme
assolutamente contradditorie scaricando sulle classi lavoratrici tutte
il peso di queste contraddizioni; il non rispetto può mettere in moto la
speculazione dei mercati e rendere estremamente difficile e molto
costoso l’accesso al credito da parte dello stato.
Naturalmente queste regole valgono per
quello che valgono e non sono eguali per tutti. Francia e Germania, data
la forza del loro paese e dei loro fondamentali macroeconomici, hanno
potuto permettersi deficit di bilancio ben superiori senza che nessuno
potesse dire niente e che i mercati fossero scossi.
Ma poi ci sono anche gli atti e le
convenienze politiche; anche settori fortemente liberisti, negli ultimi
anni, di fronte alle crisi possibili hanno assunto scelte più
pragmatiche e le norme europee sono state variamente interpretate e
stiracchiate. Ed è stato proprio il governo Renzi a beneficiare di
queste disponibilità politiche, riuscendo ad ottenere significativi
margini di flessibilità nella definizione delle leggi di bilancio. Il
Manifesto ieri parlava giustamente di un “tira e molla” possibile tra il
governo italiano e Bruxelles, anche perché, in fondo, uno 0,8
percentuale di punto in più non è la fine del mondo ed è possibile che
nel difficile quadro europeo attuale nessuno voglia aprire uno scontro
troppo forte con l’Italia.
Significativa in proposito la dichiarazione del commissario europeo agli affari economici Moscovici di questa mattina: “ Non
abbiamo alcun interesse ad aprire una crisi tra l’Italia e la
Commissione, ma non abbiamo neanche interesse a che l’Italia non riduca
il suo debito pubblico, che rimane esplosivo”.
E’ proprio su questa possibilità che
puntano Salvini e Di Maio; anche le pressioni del Presidente della
Repubblica che ha impedito le dimissioni di Tria sembrano andare in
questa direzione.
Nuovi tagli alla spesa sociale
Per riassumere la destinazione delle
risorse: 12-13 miliardi servono per sterilizzare l’aumento dell’IVA, 7-8
miliardi per intervenire sulla Fornero, 10 miliardi per il reddito di
cittadinanza, qualche altro miliardo, forse 7 per il taglio delle tasse.
Inoltre saranno necessari alcuni altri miliardi per pagare l’aumento
degli interessi del debito, fatto che ridurrà l’avanzo primario.
Sono calcoli all’ingrosso ma qualcosa non
quadra di evidenza. Il passaggio del deficit dall’1,6% al 2,4%
difficilmente basterà per reperire le risorse sufficienti per finanziare
tutte queste misure. E allora dove si prendono gli altri soldi?
“Naturalmente”, dirà qualcuno, “dal taglio delle “spese inutili”:
E’ quanto si sta facendo da molti anni e che ha dato come risultato
inevitabile il taglio della spesa pubblica sociale con effetti
devastanti in termini di servizi sociali, di sanità, di scuola, di
intervento degli Enti locali, una delle cause del degrado che
attraversa il paese. Dopo Belusconi, Monti e Renzi anche
l’impresentabile duo Di Maio e Salvini andrà in questa direzione.
Il disegno di legge della finanziaria ci
presenterà a breve ben amare sorprese. Alcuni elementi inducono a
pensare che non ci saranno solo 3-4 miliardi di tagli lineari già
ventilati ai ministeri, ma anche una nuova rapina di 5 miliardi al
welfare. Vediamo quel che sarà scritto della futura legge. Prepariamoci a
contrastare un provvedimento che premia gli evasori fiscali, che non
prende i soldi là dove ci sono, che non ridà i diritti ai lavoratori,
che darà qualche elemosina, ma solo facendola pagare amaramente col
taglio della spesa sociale e con le tasse dei lavoratori dipendenti.
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