Le elezioni europee hanno segnato un
passaggio importante nel panorama politico continentale, fotografando lo stato
dei rapporti di forza e dando alcune indicazioni politiche.
I
risultati in Europa e in Italia sono complessivamente assai negativi confermando
il rafforzamento, in qualche caso assai consistente, delle forze politiche
delle destre e dell’estrema destra, espressione della disgregazione e della
demoralizzazione sociale presente in larghi settori popolari, la crisi in molti
paesi anche fondamentali come Germania e Francia della socialdemocrazia e le
difficoltà estreme delle forze delle sinistre di classe di riuscire ad
affermare le proprie proposte e il loro ruolo nella fase attuale; sullo sfondo
minaccioso le nubi delle contraddizioni e della crisi del sistema capitalista e
la mancanza ormai consolidata di un ruolo attivo sociale e tanto più politico
delle forze delle classi lavoratrici, assai divise e prive di un progetto
alternativo. Il lavoro di ricostruzione di una progetto anticapitalista e internazionalista
a partire dalle resistenze alle destre, ai fascisti e al liberismo capitalista
sarà inevitabilmente lungo, arduo e complesso, ma ancor più necessario e su cui
vale la pena di impegnarsi fino in fondo.
Un’analisi del voto europeo
L’affluenza
media nell’Unione Europea si è attestata al 50,94%, con un aumento medio di
circa 5 punti dal 2004 ad oggi. All’interno di questa media si riscontrano però
differenze tra paese. Ad esempio, in Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi,
Gran Bretagna, Spagna, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia
e Romania cresce l’affluenza, che diminuisce quasi tre punti percentuali in
Italia e due in Portogallo.
Queste
elezioni hanno confermato una certa polarizzazione, diversamente articolata nei
rispettivi paesi. Questa diversa articolazione è appunto il frutto di dinamiche
nazionali che si sono dimostrate non riconducibili a tendenze propriamente
europee, distribuite uniformemente attraverso l’Unione Europea. In una certa
misura, ciò è sempre avvenuto, ma questo carattere si è accentuato in questa
tornata elettorale, tanto che non è esagerato parlare di “ri-nazionalizzazione”
della politica europea.
La
polarizzazione di cui scriviamo non riguarda però quella che, in modo
sensazionalistico, è stata definita una contesa tra “sovranisti”, che molto
meglio sarebbe definire nazionalisti, ed “europeisti”. Si tratta di una lettura
in fondo consolatoria e, al tempo stesso, propagandistica. La polarizzazione si
è in realtà avuta principalmente a destra tra due diversi aspetti del
liberismo, cioè tra modalità diverse di gestione delle politiche economiche e
sociali in questa fase del capitalismo, anche se nessuna delle formazioni in
campo ha messo in discussione la permanenza nell’Eurozona, segnando un declino significativo
della discussione pubblica Euro/No Euro (con l’ovvia eccezione della Gran
Bretagna) che invece aveva polarizzato in diverse occasioni qualche anno
addietro.
Il risultato delle famiglie politiche
Dal
punto di vista delle formazioni e delle famiglie politiche europee, i dati che
ci arrivano dalla composizione del nuovo Parlamento Europeo sono sicuramente
indicativi: sebbene i popolari e i socialisti risultino ancora rispettivamente
il primo e il secondo gruppo all’europarlamento, con 180 e 146 seggi, sono in
realtà gli sconfitti di questa tornata elettorale: rispetto al 2014, perdono
rispettivamente, 36 e 39 seggi. D’altra parte, dal versante più propriamente
nazionalista, i tre gruppi parlamentari (ENL, EFDD ed ECR) passano da 155 a 171
seggi con una significativa variazione interna. Infatti, l’ECR, che comprende
partiti dai Conservatori inglesi a Fratelli d’Italia, passando per l’AFD
tedesca, passa da 77 a 59 seggi, mentre l’ENL (che include, tra gli altri, il
RN di Marine Le Pen, l’FPO austriaco, la Lega e il Partito della Libertà
olandese) passa da 36 a 58 seggi e l’EFDD (che comprende, tra gli altri, il
M5S, l’UKIP-Brexit Party, i Democratici svedesi) passa da 42 a 54 seggi). Dal
punto di vista politico, i tre gruppi hanno indubbi punti di contatto e di
affinità, ma presentano singolarità e diversità non riducibili ad uno, e
difficilmente formeranno un blocco unico. Tuttavia, i tre gruppi nazionalisti e
reazionari, sommati insieme, hanno numeri sostanzialmente analoghi a quelli del
gruppo dei popolari e superano agevolmente quello dei socialisti. Senza contare
che diversi parlamentari espressioni di forze nazionaliste, come i 13 ungheresi
del partito Fidesz di Orban, si annidano nella fila dei popolari. Quindi
affermare, come fanno i media legati ai tradizionali partiti mainstream
europei, che i nazionalisti sarebbero stati sconfitti purtroppo non corrisponde
alla realtà. Emergono invece i due vincitori di questo appuntamento elettorale:
i Verdi da una parte, e i liberali dall’altra. Rispettivamente passano da 52 a
69 seggi e da 69 a 109 (effettivamente il vero exploit di questa partita). Se i
Verdi hanno potuto indubbiamente beneficiare delle mobilitazioni ecologiste di
un settore non trascurabile di giovani, tuttavia sarebbe un errore caratterizzarli
come un’espressione della sinistra. I Verdi esprimono compiutamente un
orientamento da “capitalismo” verde, cioè istanze ambientaliste nel quadro
delle compatibilità capitalistiche e “soluzioni” nell’ambito della cosiddetta
economia di mercato e restano peraltro un fenomeno essenzialmente limitato al
centro e al nord Europa, in cui hanno un radicamento storico, da almeno una
trentina d’anni. I liberali, dal canto loro, esprimono invece una formazione
politica sostenitrice della competizione, del “mercato” e delle sue regole,
della riduzione dell’intervento statale in economia e dell’alleggerimento dei
sistemi di welfare. Un gruppo classicamente “neoliberista” che avrà anche il
ruolo di ago della bilancia negli equilibri continentali. La vera débacle è però
appannaggio delle sinistre dei paesi UE (GUE-NGL) che, anche qui con alcune
differenze nazionali, passano da 52 a 39 seggi, perdendo il 15% rispetto al
2014. Riprendendo le parole di Olivier Besancenot, la sinistra in Europa è un
campo di rovine. Questa consapevolezza è il punto di partenza necessario per
ipotizzare, in prospettiva, una ricostruzione adeguata di formazioni politiche
in grado di rappresentare gli interessi delle classi subalterne e di essere
soggetto attivo nelle lotte.
Che cosa è successo in Francia, Spagna, Gran
Bretagna
Osservare
più da vicino i risultati dei principali paesi dell’UE dà indicazioni
interessanti. I Verdi si affermano in particolare in Germania, dove raggiungono
il 20,5% affermandosi come seconda forza politica, staccando decisamente l’SPD
che scende al 15,8% conclamando la sua crisi. L’AfD è il quarto partito con
l’11% dei suffragi, mentre la Linke fa un modesto 5,5%, a netta distanza dai
reazionari tedeschi. È interessante notare che la maggioranza dell’elettorato
dei Verdi in Germania è composto da over-60, ed è quindi verosimile che questo
partito non abbia goduto interamente i favori dei giovani mobilitati contro i
cambiamenti climatici, ovviamente di quelli con diritto di voto.
In
Francia, Il Rassemblement National è la prima forza politica con il 23,31% dei
voti, seguiti dalla coalizione di Macron un punto dietro (ma questo dà il senso
delle proporzioni della vittoria della Le Pen), seguiti dai Verdi al 13,47%. La
France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon totalizza un modesto 6,31%, finendo
addirittura quinta dietro i Repubblicani (destra) all’8,48%. Questo dato è
particolarmente interessante perché la Francia è stata teatro di uno dei più
importanti movimenti sociali degli ultimi anni, quello dei Gilet Gialli, nel
quale la FI aveva investito molto sia in termini materiali che simbolici,
proponendosi come lo sbocco politico più “naturale” di quel movimento. Non solo
il risultato della FI è stato il peggiore dalla sua fondazione, ma, al netto
della disomogeneità delle diverse tornate elettorali, mostra un trend di
costante discesa, se si pensa che alle presidenziali del 2017 aveva raccolto il
19,58% (ben 7 milioni di voti), per poi scendere all’11,3% alle legislative del
2018, fino al risultato attuale. Non si possono trarre conclusioni definitive
rispetto al voto (o non-voto) di chi ha animato il movimento dei Gilet Gialli e
di chi questo movimento ha influenzato (sebbene lo sfondamento del RN nelle
province, da cui la rivolta è partita, possa essere un indicatore affidabile),
ma appare evidente che, come altri paesi, le mobilitazioni sociali non abbiano
avuto una traduzione elettorale a sinistra, e che, in ogni caso, non abbiano
considerato il passaggio elettorale come interessante per affermare le proprie
istanze, se si eccettuano parzialmente i Verdi. Inoltre, appare evidente che lo
spazio del nazionalismo sia occupato interamente a destra e che, nel caso
francese, l’ordine del discorso di Mélenchon abbia finito per favorire proprio
la Le Pen adottando un frame comunicativo che è il brodo di coltura del RN. Sul
piano degli elementi simbolici dominanti in una narrazione politica, sposare il
terreno originario e congeniale al tuo avversario, ne rafforza la presa
politica.
In Gran Bretagna, il primo partito è di gran
lunga il partito della Brexit del redivivo Nigel Farage, che conquista il
31,69% dei voti, seguito dai Liberal-democratici che ne conquistano il 18,53%,
piazzandosi al secondo posto, a ben quattro lunghezze dal Labour, che ne
guadagna solo 14,08, con i Verdi quarta forza all,11,10% e i Conservatori ad un
misero 8,68%. Anche solo a un primo sguardo, appare chiaro che il voto nel
Regno Unito non abbia avuto senso se non nell’ottica di un secondo referendum
de facto pro o contro la Brexit. Il risultato mostra che, sommando i voti di
Brexit Party, dei conservatori e dell’UKIP da un lato, e dei laburisti (con
alcuni se e alcuni ma dovuti alla scarsa chiarezza della sua leadership sul
punto), i liberaldemocratici e i verdi dall’altro, si ottiene una quasi
perfetta parità tra le due opzioni, che pendono per il cosiddetto Remain se
si aggiunge anche il 3,34% del SNP scozzese. Tuttavia, rispetto alla forte
polarizzazione del dibattito politico pubblico e al peso specifico del Brexit
Party, politicamente queste elezioni sono un chiaro mandato per realizzare
l’uscita dall’UE il più velocemente possibile. Al tempo stesso, emerge anche il
carattere chiaramente di destra della Brexit, ma anche l’illusione di quanti,
nel contesto che l’ha prodotta, speravano che potesse assumere un carattere di
sinistra (la “Lexit”). Avevamo scritto sin dai tempi del referendum sulla
Brexit del carattere reazionario della dinamica britannica, ben diversa da
quella prodottasi in Grecia fino all’agosto del 2015.
Nello
Stato Spagnolo, il PSOE si conferma primo partito con il 32,84% dei suffragi,
sulla scia dell’onda delle recenti elezioni politiche, con il Partito Popolare
ben distanziato al 20,13%. Il risultato politicamente più rilevante è, nel
quadro spagnolo, l’affermazione di Ciudadanos al 12,17%, che assume così il
ruolo di fulcro della riorganizzazione della destra spagnola. Per quanto
riguarda Unidas Podemos, il partito si posiziona come quarta forza al 10,05%.
Non un crollo, ma sicuramente una sconfitta che si inserisce per di più in una
chiara tendenza al ribasso, pur guadagnando un eurodeputato in più rispetto
alla precedente tornata europea (quando però si presentò
diviso da IU. Insieme, le sinistre nel 2014 ottennero oltre il 17%).
Portogallo, avanza il Bloco. Grecia, Tsipras
perde
In
Portogallo, il Partito Socialista è il vincitore con il 33,38% dei voti seguito
dalla destra del PSD al 21,94%. In controtendenza rispetto al resto della
sinistra in Europa, il Bloco De Esquerda con il 9,98% rispetto al 4,93% del
2014 e al 10,2% delle precedenti elezioni politiche (2015) tiene
sostanzialmente le sue posizioni guadagnando influenza politica. Il sostegno
esterno al governo socialista, con l’appoggio delle misure utili alle classi
popolari e il rigetto di quelle dannose, stanno pagando in termini di consenso
da quattro anni a questa parte, ma gli interrogativi e i problemi di
prospettiva rispetto a questa scelta non sono certo risolti.
Infine, il paese da cui non è in alcun modo
esagerato affermare che, nel 2015, abbia avuto origine l’attuale situazione in
Europa. In Grecia, la sconfitta di Syriza dopo diversi anni di governo non
potrebbe essere più evidente: ottiene il 23,74% dei voti contro il 33,25% di
Nuova Democrazia. Dopo la capitolazione che ha aperto la strada al campo di
rovine che è la sinistra di classe in Europa, il governo Syriza ha applicato
tutte le misure di austerità richieste dalla Troika, configurandosi come
“allievo modello”. Inoltre, ha rafforzato i legami con la NATO e aumentato
complessivamente il budget militare, alimentando la tensione con la Turchia, e
rendendo l’area del mar Egeo una delle più pericolose del mondo sul piano
militare. Di fronte agli “exploit” del governo Tsipras, non desta meraviglia
che sia stata premiata una forza come Nuova Democrazia che è pienamente dentro
i cardini dell’austerità seguiti da Syriza dentro un quadro di alternanza tra
simili. Paradossalmente, la Grecia è l’unico paese in cui il tradizionale
bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra è ancora in piedi, sebbene con
uno dei poli che non appartiene formalmente alla famiglia dei socialisti
europei. Tsipras, non ha potuto far altro che annunciare la convocazione di
nuove elezioni politiche.
Il voto italiano
Il
voto italiano è parte delle dinamiche generali europee e nello stesso tempo
mette in luce la negatività della situazione sociale e politica nel nostro
paese egemonizzata dalla Lega, che le pur significative mobilitazioni antifasciste,
antirazziste, femministe ed ambientaliste degli ultimi mesi non hanno potuto
modificare.
In
Italia, l’affluenza risulta in calo rispetto alle ultime europee, dal 58,69% al
56,29%, e il calo è generalizzato in tutte le aree del paese.
La
Lega ottiene il 34,33%, ovvero 9.153.368 voti, con una distribuzione del voto
che premia in modo schiacciante il Nord e il Centro del paese (con il 40% e il
33% rispettivamente), ma si configura anche come partito ormai nazionale
ottenendo più del 23% al Sud e il 22% nelle isole. La Lega ottiene ben
7.467.082 di voti in più rispetto alle europee del 2014 e ben 3.441.000
rispetto alle elezioni politiche del 2018.
Il PD,
nonostante l’illusione ottica delle percentuali conquistate, il 22,69%, che lo
piazza al secondo posto, non ha né fatto un exploit né ha aumentato la sua
riserva di voti assoluti: dalle europee del 2014 ha perso ben 6.028.000 voti,
mentre rispetto alle politiche del 2018 perde 121.000 voti ottenendo i migliori
risultati nel centro e nel nord del paese, in cui risulta secondo, ma scendendo
decisamente al terzo posto nel Sud e nelle isole.
Fratelli
d’Italia passa dal 3,67% delle europee 2014 guadagnando circa 700.000 voti con
il 6,46% delle europee 2019, ma guadagnando anche sulle politiche del 2018, in
cui prese il 4,35% (circa 300.000 voti in più).
Il M5S
è il grande sconfitto di questa tornata elettorale: perde 1,252.000 voti
rispetto alle europee del 2014 e l’enormità di 6.189.000 voti rispetto alle
politiche del 2018, in cui risultò di gran lunga il primo partito su tutti gli
altri. Il Movimento crolla letteralmente al Nord e al Centro, i cui voti si
dividono tra Lega e PD, e arretra anche al Sud, benché resti il primo partito.
Tuttavia, se si considera che alle politiche del 2018 il M5S aveva ottenuto una
media del 47% nelle regioni meridionali (con percentuali anche del 60% in
Campania), la misura della sconfitta emerge in tutta la sua chiarezza.
Forza
Italia si può considerare ormai in una irreversibile tendenza all’arretramento:
perde 2.300.000 voti rispetto alle europee del 2014 e e più o meno lo stesso
numero di voti assoluti rispetto alle politiche del 2018. Tuttavia, un
pacchetto di voti di circa 2.000.000 può essere comunque allettante in scenari
di crisi di governo.
Infine,
la debacle della lista La Sinistra. Ottiene appena 465.00 voti, perdendone
550.000 voti rispetto alla performance dell’Altra Europa nel 2014, ma
soprattutto crolla rispetto anche alla sola Liberi e Uguali (il PRC era allora
in PaP), che alle politiche del 2018, aveva totalizzato 1.109.000 voti.
Vincitori e vinti
La
Lega emerge incontrastato come primo partito del paese. Cannibalizza buona
parte del voto del M5S al centro e al Nord, e fa irruzione al Sud per la prima
volta in una tornata di valore politico nazionale. La sua attuale capacità
egemonica si struttura su una narrazione in grado di offrire uno sbocco
politico a diversi ed eterogenei interessi. La sua caratteristica di “partito
delle provincie” mette insieme la piccola borghesia imprenditoriale e
commerciale del Nord-Est, desiderosa di mantenere il suo stile di vita e
allettata dalle promesse di abbassamento drastico delle tasse, con la
sofferenza economica e lo spesso drastico abbassamento del tenore di vita delle
province del Nord-Ovest e del centro Italia, ma anche con numerose province
meridionali, in cui l’odio per i migranti ha fatto breccia nell’immaginario
popolare. La Lega oggi tiene in mano le redini del governo, potendo dettare
l’agenda politica spingendo fortemente per i progetti che più le stanno a
cuore: autonomia differenziata, Flat Tax, TAV e decreto sicurezza-bis. Il M5S
sarà costretto ad abbozzare, accettando le misure proposte dalla Lega, o dovrà
rompere, assumendosi la intera responsabilità della caduta del governo, che gli
stessi pentastellati hanno sempre difeso, condividendone peraltro tutte le
ignominie, dal primo decreto sicurezza alle misure razziste contro i migranti e
contribuendo a spostare il senso comune decisamente a destra. Il crollo al
Centro e al Nord, ma ancor più la batosta al Sud segnalano la delusione e la
demoralizzazione di settori sociali che avevano consentito la crescita del
Movimento fino a queste elezioni: da una parte un settore di piccola borghesia
delle professioni, del commercio o della piccola e piccolissima imprenditoria,
passata armi e bagagli alla Lega, e dall’altra settori di classe lavoratrice e
piccola borghesia impoverita al Sud che hanno scelto in larga parte
l’astensione. È evidente che ci sia nuovamente una domanda politica inevasa e
senza rappresentanza dei propri interessi al Sud: se da un lato il M5S tiene
grazie al reddito di cittadinanza, che pur con fortissimi vincoli, modalità
punitive e paternaliste di erogazione e con la promozione di una dinamica
disgregatrice, ha tuttavia offerto sollievo a una miseria spesso nera,
dall’altro perde paradossalmente proprio per la difficoltà di accesso a questa
misura di workfare che ha peraltro coperto una parte ridotta della platea
potenziale, senza contare risposte su lavoro e salario che non arrivano e non
potranno arrivare, a causa delle caratteristiche e dell’intima natura di questa
formazione politica: le vicende di questi mesi e finanche i flussi elettorali
di queste europee dimostrano che era una pia illusione, per non dire colpevole
connivenza, quella dei settori di sinistra o ex sinistra di classe che hanno
sostenuto, apertamente o surrettiziamente, i pentastellati. Così come è
una pericolosa leggenda l’esistenza di settori progressisti o di sinistra nel
M5S.
Il PD,
da par suo, canta vittoria, ma, come abbiamo visto, può farlo soltanto per
demeriti altrui. Le percentuali e i voti reali parlano chiaro: il PD non si è
ripreso dalla tendenza al ribasso che lo contraddistingue dall’exploit di Renzi
alle scorse europee. Riesce però a dare la percezione di essere uno dei vincitori
perché ha beneficiato della polarizzazione innescata da Salvini e dalla Lega e
ha parzialmente attirato, in una sorta di “redistribuzione interna”, voti che
aveva già perso ma che erano già del centrosinistra. Ad ogni modo, la strategia
di Zingaretti, se così si può definire, è la riproposizione di un
centrosinistra con al centro il PD e sostenuto da quella sinistra che non può
non girare attorno alla sua orbita.
La sconfitta della sinistra e il rilancio di un nuovo
percorso necessario
Questo ci porta alla sconfitta senza appello
della lista de La Sinistra, il cui risultato disastroso è spiegabile in parte
anche con lo spostamento del proprio potenziale elettorato verso il “voto
utile” al PD, visto come argine alla Lega, quando è evidente che invece abbia
preparato il terreno per la sua affermazione nei precedenti anni di governo,
sia dal punto di vista materiale che ideologico (do you remember
Minniti?). Ma non c’è solo questo. Nonostante il fatto che sia stato corretto
dare indicazione di voto per l’unica espressione alternativa, sul piano
elettorale in queste europee, al liberismo nazionalista e a quello “europeista”
per provare in extremis a salvare dalla sparizione uno spazio politico
connotabile a sinistra (e questa sparizione ha spinto indietro l’intero spettro
della residua sinistra di classe in questo paese), occorre dire che il terreno
per questa sconfitta elettorale è stato preparato più e più volte nel corso di
questi anni. Sostituire accordi di vertice, spesso solo elettorali e dalla prospettiva
ambigua, spesso costruiti al solo scopo di eleggere senza un progetto
strategico condiviso, al necessario lavoro di ri-radicamento sociale, al
sostegno alle lotte e al contributo per lo sviluppo di condizioni le più
favorevoli possibili alla lotta di classe, ha prodotto ancora una volta una
lista senza mordente e senza riconoscibilità sociale, le cui possibilità di
successo erano obiettivamente improbabili, tanto più in un quadro così
difficile come quello descritto in Italia e in Europa. Non basta avere un
programma accettabile per vincere.
Dalla crisi della sinistra di classe (“un
campo di rovine” per usare l’espressione di Olivier Besancenot), non si può
uscire reiterando metodi obsoleti e pratiche desuete. Occorre invece ripartire
prioritariamente dall’unità paziente e necessaria nelle mobilitazioni sociali e
di classe e dal confronto strategico egualmente paziente e necessario, che si
può condurre solo avendo a disposizione uno spazio politico in cui, senza
schiacciare l’identità di ciascuna organizzazione, associazione, collettivo,
singolo che vi partecipi, si riescano a mettere in campo pratiche comuni
che favoriscano le condizioni della lotta di classe, invece di deprimerle, a
partire dal fondamentale lavoro sindacale.
Questo
è il senso della nostra proposta di Forum sociale e politico della sinistra di
classe, che auspichiamo sia raccolto nel modo più ampio possibile e che
crediamo fermamente corrisponda allo stato d’animo non solo della maggioranza
dei militanti e delle militanti delle organizzazione politiche della sinistra
di classe e del sindacalismo conflittuale, ovunque collocato, ma anche a quelle
di tante lavoratrici e tanti lavoratori, sedotti e abbandonati a più riprese
dalla sinistra in questo paese.
Ci
pare essere l’unica strada per risalire la china ed impedire che ampi settori
di classe si rifugino nell’astensione o votino addirittura a destra.
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